Sane letture sportive: da Avvenire.it del 16/05/10 "Michelotti, il Verdi del fischietto".

Per la nostra rubrica "Sane letture sportive" pubblichiamo un altro bell'articolo tratto sempre da Avvenire.it, questa volta di domenica 16/05/10 dal titolo "Michelotti, il Verdi del fischietto". Ringraziamo per la segnalazione Marco Pellei, nostro esponente della Gagliarda Rugby.

Michelotti, il Verdi del fischietto
di Massimiliano Castellani

Per capire il calcio, metafora della vita e specchio di questo Paese, bisogna avere la fortuna di imbattersi in un arbitro. Ma in uno di quelli veri, di una volta, che innanzitutto vestivano di nero e non di giallo, arancione o fucsia, come fanno adesso. Un signore che alla domenica lasciava il lavoro, moglie e figlie, chiudeva l’officina di riparazioni e dopo aver percorso mille chilometri in auto, «su e giù per la Cisa», si presentava in uno stadio zeppo di gente, con al massimo una telecamera piazzata, ma tante radioline accese, sintonizzate su Tutto il calcio minuto per minuto . Noi quell’arbitro l’abbiamo ritrovato: è il signor Alberto Michelotti di Parma, classe 1930. La sua è una storia da romanzo popolare, che non a caso è appena diventato un libro ( Dirige Michelotti da Parma. Vita e passioni di un grande arbitro , prefazione di Gianni Mura, Mup editore), scritto dalla penna breriana di Claudio Rinaldi. La storia di un italiano, di un parmigiano d’Oltretorrente, cresciuto nel borgo degli Arditi del popolo, «dove neppure le camice nere di Farinacci e le truppe di Italo Balbo riuscirono ad entrare». Razza Miclòt, «I Michelotti in pramzàn – parmigiano – che è la mia prima lingua», gente tosta, grintosa, «da sempre in trincea», venditori di frutta al mercato della Ghiaia, e caldarrostari davanti al Teatro Regio. Alberto e i suoi fratelli, contagiati dalla febbre d’Opera dai nonni Napoleone e Marietta, sono cresciuti all’umile corte di mamma Elsa «di Brabante», che ai figli aveva dato solo il suo cognome, Michelotti. E per questo a scuola, Alberto subì la più grave e indelebile delle umiliazioni. «Il maestro Lazzari non accettava che la mia famiglia fosse antifascista, così in classe davanti a tutti mi diede del 'bastardo'… Mia madre, donna straordinaria, quando lo seppe si fece giustizia da sola, a colpi di zoccolo.Ma da quel giorno la mia vita cambiò…». Fine prematura dell’infanzia e dei ricordi di scuola – «ho fatto la terza in treno» – e addio al sogno di diventare un oboista diplomato al conservatorio. «Mi ritrovai ad essere il capofamiglia. C’era bisogno di portare i soldi a casa e quelli me li procuravo con il lavoro all’officina, più qualche spicciolo giocando a calcio».Inizia con la squadra degli Stimmatini, la Frassati, arriva in C con il Borgotaro e poi chiude con la Folgore a Piadena. Sudore dalla fronte, grasso sulle mani, ritto e steso in buca nell’officina avviata con il socio Gino Bolzoni, poi alla soglia dei trent’anni, la «vocazione arbitrale».Direzioni sanguigne, di polso e spettacolari come la volta che a Governolo, nel mantovano, l’ultimo pallone finì nel Po e di slancio si tuffò a recuperarlo per poi continuare ad arbitrare bagnato fradicio. Tra tanti fischi, pochi applausi, bottiglie in testa e invasioni di campo arrivò in serie A diventando come Togliatti, «il migliore».«Senza l’aiuto di nessuno, sono arrivato in cima, mantenendo fede anche in campo ai princìpi che mi aveva trasmesso la mia famiglia: onestà, rispetto, coraggio, educazione e soprattutto non provare mai invidia per nessuno». Ma il segreto che alla fine degli anni ’70 lo aveva reso il numero 1 al mondo era il dialogo, rigorosamente in dialetto, con Riva come con Pelè. «Oltre al dialogo, non nego che avessi una direzione fisica, i miei spintoni leggendari, mandavano in bestia il capo degli arbitri di allora, Campanati, che puntuale mi rimbrottava: 'Alberto, tieni giù quelle mani'…». Ma quelle manone da meccanico gli servivano a tenere a bada la rabbia di giganti come il tedesco Hrubesch, che durante un Amburgo-Real Madrid osò affrontarlo.«Con uno spintone lo feci girare come una trottola. Ogni volta che lo incontro mi dice divertito: 'Alberto sto ancora girando'...». Una domenica la mano in fuorigioco fu quella del presidente del Torino Pianelli: «Venne a protestare negli spogliatoi. Lo invitai ad uscire, ma furioso insisteva e alla fine lo spinsi fuori, richiusi con forza la porta, ma la sua mano rimase incastrata e dal dolore cadde svenuto…».Gioie e dolori con Michelotti. Amato e temuto dai campioni dell’epoca, dal silente Zoff al «Bonimba» Boninsegna, «finita la partita con lui si andava a cena». Rispettato e vezzeggiato da tipi come Paolino Pulici, che quando gli fischiava un fuorigioco di troppo, civilmente protestava: «Stavolta ha stonato Don Carlo». La seconda identità con cui Michelotti è conosciuto a Parma è infatti Don Carlo. «Dal ’72 sono uno dei membri del Club dei 27, in cui ogni adepto incarna un’opera di Giuseppe Verdi». Il suo fischio era verdiano anche in campo, acuto e più intenso di quello alla pecorara del Trap, che per zittirlo doveva ricorrere alla minaccia bonaria, in parmigiano: «Donca Giovanèn. A gh’è do cozi da fàr: o a taz zò a’t vè fòra.Decida», tradotto: «Giovannino. Ci sono due cose da fare o stai zitto o vai fuori.Decidi». Trapattoni sbottava in una risata e la cosa finiva lì. «Perché allora tra arbitro e giocatore si stabiliva un rapporto di reciproco rispetto. Certo c’erano le teste un po’ più calde, i tuffatori alla Chiarugi (coniò il 'chiarugismo') o i furbetti alla Roberto Bettega, che brontolava sempre, ma appena si accorgeva che stavo per estrarre il rosso, pronto giustificava: 'No guarda, stavo appunto dicendo: Roberto perché ti lamenti? Alberto è bravo e sicuramente ha ragione'…. E poi i contestatori indefessi, come Gianni Rivera». Per niente «abatino» nei suoi confronti, quando nella stagione 1971­’72 concesse al Cagliari un rigore dubbio che costò lo scudetto al Milan. «Rivera me ne disse di tutti i colori e si beccò due mesi e mezzo di squalifica, così per tre anni non ci siamo più parlati. Poi un giorno Nereo Rocco pretese che facessimo la pace». Oggi Rivera pensa ancora che quel rigore non ci fosse, ma di Michelotti sottoscrive: «Aveva autorità, ma non è mai stato sopra le righe. Se una partita doveva finire zero a zero, con lui finiva zero a zero. Con Concetto Lo Bello – il 'tiranno di Siracusa' – magari uno a uno…». Michelotti era presente ma discreto, «mai casalingo», al punto da rischiare il linciaggio in un Roma-Inter del 7 dicembre del ’72, in cui dopo un rigore concesso ai nerazzurri successe il finimondo e Silvio Bastinelli, il 27enne tifoso romanista che lo aggredì, venne arrestato. Era un calcio che dava i primi segnali preoccupanti violenza e di corruzione. Nell’80, quando ormai era al termine della carriera, scoppiò il primo scandalo Calcioscommesse. «Quell’anno a Casablanca, fui chiamato a dirigere Marocco-Algeria, gara di qualificazione per le Olimpiadi di Mosca, e successe di peggio. Un noto inviato di giornale mi avvicinò alla vigilia della partita e mi disse: 'Deve far vincere il Marocco, altrimenti non manderanno più una goccia di petrolio all’Italia…'. Quel signore si ritrovò a girare come Hrubesch... L’Algeria vinse 4-0, mandò in crisi il Marocco, ma il petrolio in Italia continuò ad arrivare regolarmente». E fino ai 50 anni suonati in campionato e ai 67 nella «Coppa Pelè» in Brasile, altrettanto regolarmente l’arbitro Michelotti ha continuato a scendere in campo, svolgendo una funzione che dal suo racconto sembra lontanissima parente di quella attuale. «Pur essendo stato additato erroneamente come 'mister rigore', io fischiavo al massimo tre-quattro volte a partita, oggi siamo ad almeno 60-70 segnalazioni, con minimo otto ammoniti e due espulsi. Il dialogo si è perso e questo anche perché purtroppo gli arbitri sono diventati professionisti.Un male, oggi guadagnano 300mila euro l’anno, noi avevamo 80mila lire di diaria giornaliera che salivano a 120mila per le partite internazionali.Perciò se alla domenica lasciavi la famiglia per andare ad arbitrare, con il rischio di prenderle pure, lo facevi solo ed esclusivamente per passione». La stessa che metteva nei referti, che da sgrammaticati e approssimativi si fecero sempre più letterari, grazie alla frequentazione assidua a Luzzara di Cesare Zavattini e al consiglio di Gianni Brera di «annotare tutto su dei taccuini – così mi diceva – ti ricorderai sempre di una persona o di una storia interessante». Ecco, abbiamo fatto lo stesso, con la storia singolare di un italiano che è stato anche un arbitro di calcio, orgoglioso delle partite che ha diretto e delle sfide quotidiane che continua ad affrontare. «Il calcio mi ha dato tutto, partendo dal nulla, ma tenendo sempre a mente l’insegnamento più importante che mi diede mia madre in una notte di Natale di tanto tempo fa, in cui eravamo così poveri e senza neppure un regalo da scartare che ci veniva da piangere. Allora lei ci strinse forte tutti e quattro intorno a sé e ci disse: 'Ricordatevi, noi siamo i più ricchi e i più forti, perché ci vogliamo bene'.Aveva ragione». Rivera: «Aveva autorità, ma non è mai stato sopra le righe. Se una partita doveva finire zero a zero, con lui finiva zero a zero. Con Concetto Lo Bello magari uno a uno».
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