AVVENIRE.IT
DEL 13/06/2013
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Il coordinatore è l’ex corridore Andrea Tonti: «Fino a 5 anni fa il ciclismo qui non esisteva».
L’idea di “importare” il ciclismo nel più popolato Paese africano è venuta a un ingegnere di origine anconetana che lì vive e lavora da oltre vent’anni.
Giandomenico Massari è un manager di una grande azienda e un incallito pedalatore che un giorno ha deciso di dare una svolta alla sua passione cercando di coinvolgere i nuovi connazionali: ha fondato un club, il Life Styling Cycling, e ha chiamato l’ex professionista Andrea Tonti per organizzare l’attività.
«Fino a cinque o sei anni fa non sapevano cos’era una bici da corsa – rivela Tonti, 12 anni da professionista accanto a campioni come Cunego, Bettini e Boonen –. Ora sono in tanti a pedalare, anche se siamo ancora in una fase pionieristica. Due anni fa è stata organizzata la prima edizione del Niger Delta Tour, in cinque tappe: una cicloturistica che attraversava i villaggi sperduti con gli abitanti sbigottiti che cercavano di capire cosa fosse. Un evento nuovo, seguitissimo dai media».
Il progetto di sviluppare l’attività ciclistica è nato a Port Harcourt, nel sud del Paese, dove sono concentrare le più grandi compagnie petrolifere. Il soci del club Life Styling Cycling hanno cercato di coinvolgere i giovani autotassandosi per fornire loro bici e maglie. Il club è diventato il referente principale della Federazione ciclistica che esisteva solo di nome, perché di attività neanche a parlarne. «Negli organi federali sono stati inseriti tre membri del “Life” e qualcosa comincia a muoversi – aggiunge Tonti –. E al club si è appoggiato anche il ministro dello Sport, lo abbiamo incontrato il mese scorso. A me hanno affidato l’incarico di supervisore federale».
Costruire dal nulla un’attività sportiva è un impegno titanico, ancora più mastodontico inculcare una mentalità adeguata. «Lo scorso anno ho fatto venire a casa mia, nelle Marche, due diciottenni, un ragazzo e una ragazza, per fargli vedere da vicino il vero ciclismo. Una sorta di stage perché dalle loro parti non sanno cos’è l’allenamento e l’alimentazione.
Non avevano mai visto una salita di oltre un chilometro e mezzo. Li ho portati al Centro Mapei per effettuare dei test, per per avere dei parametri atletici come punti di partenza. Così come dei punti di riferimento li ho tratti facendoli allenare con dei coetanei. Per loro è stato come un viaggio nel futuro visto che molti non hanno nemmeno la luce in casa. Ora i due ragazzi trasmettono le nozioni apprese».
Dopo la teoria gli aspiranti atleti vanno “buttati” sulla strada. «Si organizzano corse una volta al mese e come premi ci sono frigo, televisori, mobili…tutte cose che non hanno e che aiutano a migliorare la qualità della vita. Perché i soci del club non pensano solo alla pratica sportiva, vogliono portare avanti un progetto sociale per dare ai giovani l’opportunità di costruirsi una vita migliore. E allo sport come strumento per per avere dei cittadini migliori hanno iniziato a crederci anche le Istituzioni, per educare i giovani al rispetto delle regole che l’agonismo impone». Per crescere bisogna imporsi degli obiettivi e quelli nigeriani sono molto ambiziosi. «Far qualificare un corridore alle prossime Olimpiadi – chiosa Tonti –. Non importa in quale specialità. Forse è più facile riuscirci con una donna: hanno meno concorrenza e qui ci sono molte praticanti. Per avviare il progetto “Nigeria for Rio 2016” ho appena riaperto il velodromo che avevano costruito nel 2003, per i Giochi Africani, e mai più usato. È un impianto che farebbe invidia a molti Paesi europei».
"IL TOGO AI GIOCHI DELLA NEVE. LA SCOMMESSA DI JAYJAY"
Ultimo nel 2012 ai Mondiali, il primo togolese dello sci nordico ci riproverà a Sochi 2014.
La distanza dai Giochi Olimpici di Sochi 2014 è misurata da un contatore che scorre su una pagina internet: giorni, ore, minuti e secondi che separano il Togo da un piccolo avvenimento storico. Il paese africano ha intenzione di essere protagonista ai Giochi Invernali, impresa vera per una nazione che nelle grandi competizioni sportive ha una tradizione minuscola: nove partecipazioni alle Olimpiadi estive e una sola medaglia vinta, un bronzo nel kayak a Pechino 2008. Lo scorso inverno è arrivata la sorpresa: il Togo ha creato una Federazione Sci. Merito di Akpedjé-Viossi Gervasio Madja, per tutti JayJay. Il primo sciatore di fondo nella storia del Togo ha debuttato sulla scena internazionale ai Mondiali di Val di Fiemme 2012. L’atleta a Tesero si è fatto notare più per le note di folklore che per i risultati. Ultimo e subito eliminato nella gara sprint, ritirato dopo pochi chilometri nello skiathlon quando era già stato doppiato dal gruppo dei migliori. «I risultati ai Mondiali non sono stati soddisfacenti, ma abbiamo creato una federazione dal nulla solo poco più di un anno fa.
Abbiamo la fortuna di avere un atleta che si allena in Germania e che la Fis ha inserito nel novero degli atleti pro. Avete idea di quanto sia difficile? Per noi è già un bel risultato...», spiega Ramanou Mawuli, segretario generale della Federazione. «Parteciperemo ai Giochi di Sochi per migliorarci e speriamo di poterci aprire anche ad altre discipline». Con un obiettivo chiarissimo: «Far conoscere il Togo nei Paesi che praticano gli sport invernali e creare sensazione».
JayJay Madja, intanto, prosegue nel suo programma d’allenamento in Baviera. Lui, che fino a un anno e mezzo fa era un ingegnere ben integrato nella vita del paese europeo dove è cresciuto (si è trasferito con la famiglia quando aveva solo otto anni), si è ritrovato catapultato sotto i riflettori di uno sport mai praticato fino
a un anno fa. «Appena mi hanno messo gli sci ai piedi mi sono sentito come un neonato che non sa camminare». Ad allenarlo ci ha pensato Toni Hiltmair, istruttore della scuola di sci Powderworld, colui che ha messo in piedi dal punto di vista tecnico il progetto. Un’anima teutonica sulla quale poggia il progetto Team Togo, completo di pagina internet e fan su Facebook. Quando JayJay ha deciso di imparare a sciare di fondo, Hiltamair ha pensato di sfruttarne il potenziale per convertirlo in un atleta e dare un’aura mediatica al tutto. Ora l’obiettivo è perdere qualche chilo, migliorare la tecnica e aspettare i Giochi. E magari iniziare a scrivere qualcosa nella sezione già predisposta dell’albo d’oro.
AVVENIRE.IT DEL 03/07/2013
"LA MEDAGLIA DEI LEALI"
Vogel e Anaya, piccole storie di sport vissuto in grande.
Hai voglia a spiegare che vincere non è un imperativo categorico, specie in un contesto sportivo dove ci si rende conto che fra doping e scorrettezze d’ogni tipo si cerca l’impossibile per prevalere sugli altri. Esiste una fortuna però, ed è legata a quelli cui resta ancora un briciolo di amor proprio. A quelli, per dirla tutta, che con un semplice segno di lealtà riescono a restituire la dignità smarrita dagli altri. Questo è il caso di due
mezzofondisti, una ragazza statunitense e un atleta spagnolo, premiati nei giorni scorsi a Losanna, nella sede del Cio, per i veri momenti di gloria dello sport: quelli legati al fair play. Gesti onesti, non eclatanti; e istantanee legate a chi rispetta gli avversari, sempre e comunque. Lei, Meghan Vogel, si trovava a Columbus,
nell’Ohio, quasi al traguardo di una corsa da 3200 metri. Lì, a 150 metri dal filo di lana, osservando l’atleta che la precedeva, Arden McMath, si accorse delle sue difficoltà: la McMath stava stramazzando al suolo, cotta dalla fatica, praticamente ferma, gambe piegate e sguardo perso nel vuoto. Ricordate l’Olimpiade del 1984, quando una maratoneta svizzera, Gabriela Andersen-Schiess, impiegò più di cinque minuti per compiere l’ultimo giro di pista, tutta piegata da una parte, quasi al collasso? Ecco, nell’Ohio stava accadendo
qualcosa di simile. Così la diciassettenne Vogel, classica ragazza da college, bella, bionda e pimpante pure sul rettilineo finale, non ci ha pensato due volte: si è caricata l’avversaria in spalla portandola con sé fino al traguardo. Il premio in questione, il Fair Play Awards (ideato dall’Associazione internazionale della stampa
sportiva) è stato assegnato anche allo spagnolo Ivan Fernandez Anaya, pronto ad accorgersi durante una gara di corsa campestre disputata a Burlada che l’antagonista in testa alla gara, Abel Mutai (fra le altre cose tutt’altro che l’ultimo della classe visto che è stato bronzo olimpico a Londra 2012) aveva confuso la linea del traguardo. S’era fermato cioè una decina di metri prima del finish, convinto d’aver concluso la gara. Così l’iberico lo raggiunse ma non lo superò, lo avvisò dell’errore, gli indicò il vero traguardo e arrivò alle sue spalle. «Non me lo sarei perdonato di vincere una gara in maniera scorretta», ha dichiarato Anaya. Gesti d’altri tempi, verrebbe da scrivere, da libro Cuore, meritevoli d’un premio perché diventano spesso e volentieri un unicum, atteggiamenti isolati e nulla più.
All’interno della stessa manifestazione a Losanna, Davide Ballardini è stato premiato dall’Associazione internazionale della stampa sportiva (Aips), presieduta da Gianni Merlo, per il suo gesto di fair play in occasione di Roma-Genoa, che gli è costata anche l’espulsione. Il tecnico del club ligure (oggi ex) fu cacciato dall’arbitro Gervasoni dopo aver invaso il campo di gioco per fermare la partita e richiamare l’attenzione poiché nessuno si era accorto che il giocatore della Roma, Osvaldo era a terra per infortunio. Un gesto “normale” che, purtroppo, diventa speciale.
AVVENIRE.IT DEL 25/07/2013
"LO SCUDETTO DI NELA «HO BATTUTO IL CANCRO»"
L’ultima sfida vinta dal difensore della Roma campione d’Italia dell’83: «A sconfiggere il tumore mi ha aiutato la preghiera, l’amore della mia famiglia e il grande sostegno degli ex compagni di squadra».
«E correndo correndo di notte da solo, prendi la tua tuta blu, stella stella crudele e sincera, fammi correre di più...», canta Antonello Venditti in Correndo correndo. È il brano dedicato a uno dei suoi eroi della “magica Roma” (quella dello scudetto, stagione 1982-’83) il fluidificante della corsia di sinistra Sebastiano Nela, per la torcida giallorossa, semplicemente Sebino il grande. Venditti quella canzone la incise nel 1987, quando Nela era alle prese con il recupero da un brutto infortunio al ginocchio. «Picchia Sebino», chiedevano a gran
voce i Ragazzi della Sud, e lui, a 52 anni, ha appena finito di “picchiare” l’avversario più ostico che abbia mai incontrato, il cancro. «Lo scorso autunno mi diagnosticarono un tumore al colon con presenza di metastasi.
I medici mi dissero che non c’era tempo da perdere, così il 14 novembre sono stato operato». Poi la dura lotta contro il male e le sedute di chemioterapia. «La prima sensazione naturalmente è stata di paura. Paura di non farcela, il terrore della morte che condividi con tante persone... Finchè certe esperienze non ti toccano
direttamente, molto spesso non si ha idea di quanta gente ci sia negli ospedali che soffre – dice emozionato Nela – . Sono stati 8 mesi difficili e il pensiero a volte andava a mio padre che due anni fa è morto di cancro.
Ho pregato Dio che mi desse la forza di reagire. Ho preso la situazione di petto, cercando di mantenere sempre uno spirito positivo, anche perché non mi andava di farmi vedere giù di morale da mia moglie e dalle nostre due figlie. L’amore della mia famiglia è stato fondamentale per uscire dal tunnel». Poi c’è stato il grande affetto della sua seconda famiglia, la Roma dello scudetto di trent’anni fa. «I ragazzi (Conti, Pruzzo, Chierico e gran parte di quella rosa giallorossa che risiede ancora a Roma, ndr) sono stati meravigliosi e non smetterò mai di ringraziarli per il loro affetto e il sostegno che mi hanno dato. Ogni lunedì sera organizzavano una cena per stare assieme e per non farmi pensare alle terapie alle quali dovevo sottopormi durante la settimana. E poi è stato importante continuare a lavorare come commentatore. A quelli di Mediaset ho solo chiesto nei mesi invernali di non spedirmi troppo lontano, non potevo rischiare di beccarmi un’influenza...». Ora l’inverno è finito da un pezzo e con la primavera Sebino, ha picchiato ancora duro contro il male. L’ultimo ciclo di chemio l’ha sostenuto tre settimane fa e l’11 luglio il risultato finale dice che ha vinto ancora lui. «La tac ha dato esito positivo, tutti i valori sono tornati alla normalità... Provi a non pensarci più, ma poi pensi che vorresti fare qualcosa per chi sta ancora male, specie per i bambini. E poi quando senti che Tito Vilanova ha dovuto lasciare il Barcellona per una recidiva provi tanta amarezza, perché sai che cosa significa dovere combattere tutti i giorni contro certo malattie. Ma un attimo dopo mi dico anche che è tempo di andare avanti e di ricominciare..». Ha ricominciato da Riscone di Brunico, dove è in ritiro la Roma di Garcia e domenica Sebino è pure tornato in campo con le vecchie glorie romaniste nella partita di beneficenza contro la Nazionale dei magistrati. «Abbiamo vinto noi e per me in questo periodo è come essere tornato ai
giorni dei festeggiamenti per il nostro scudetto». Il secondo storico tricolore della “Maggica” guidata dal barone Nils Liedholm; la società di quel nobil signore del senatore Dino Viola. «Credo che tranne per le ultime generazioni, la nostra Roma sia rimasta nel cuore dei tifosi molto più di quella di Capello che vinse lo scudetto nel 2001... Forse perché era una squadra tutta italiana, forse perché era ancora un calcio più umano. Oggi c’è una proprietà americana con dirigenti che spuntano da tutte le parti, comprano 40 giocatori e mettono sotto contratto venti fisioterapisti.
Insomma non si capisce più niente». Parola della “bandiera Nela” che è rimasto profondamente legato alla Roma e ha sempre sognato di poterci tornare a lavorare un giorno. Ma a parte Bruno Conti, della vecchia guardia non c’è mai stato spazio per nessuno di quei ragazzi dell’83. «C’è solo Bruno è vero, e anche lui durante l’era Sensi ha avuto dei momenti in cui stava per mollare... Io sono stato a un passo dal rientro, quando ho fatto da mediatore per portare Rudi Voeller sulla panchina della Roma.
L’operazione andò in porto, ma qualcuno ha pensato che non meritassi neppure un “grazie” e mi hanno sbattuto la porta in faccia. Ma va bene così: ho un patentino da direttore sportivo e quello da allenatore di prima categoria. Faccio il commentatore in tv e ho spalle belle larghe, continuo per la mia strada». Le spalle grosse, come i polpacci del gladiatorio Sebino, 281 battaglie (con 16 gol segnati) combattute con la maglia giallorossa e allenato fin dagli inizi a non arrendersi mai. «La mia carriera poteva chiudersi già a vent’anni. In un Napoli-Roma per la gomitata fortuita del mio compagno Dario Bonetti ebbi un arresto cardiaco.
Per undici anni a ogni inizio stagione dovevo andare a Trento a farmi confermare l’idoneità agonistica dal prof. Furlanello. Quando sento di giovani calciatori che muoiono o di quei colleghi come Borgonovo che sono stati stroncati dalla Sla qualche domanda me la faccio... La mia generazione, che io sappia, può avere abusato di micoren e di voltaren e di qualche “bibitone”, ma personalmente non solo non ho mai preso nessuna sostanza, ma ho perfino repulsione per l’ago. Il doping aiuterà a correre di più, ma nel calcio la differenza la fa ancora la tecnica. E con quello che circola da noi, gente come Totti e Pirlo possono campare di rendita ancora per parecchio». Mancano i fantasisti, ma anche i fluidificanti alla Nela («se è per questo anche i portieri, togli Buffon il resto sono solo stranieri», sottolinea Sebino) che ha un solo rimpianto: la Nazionale. «Feci i Mondiali di Messico ’86 con Bearzot, dopo Vicini mi aveva promosso titolare, ed erano anni in cui in per quel ruolo c’erano De Agostini, Carobbi, Di Chiara e stava sbocciando Paolo Maldini. Poi l’infortunio e sono rimasto con sole 6 presenze in azzurro, ma ne avrei potute fare almeno una ventina.
Però, ora più che mai, so che sono altre le cose che contano, anche nella vita di un uomo di calcio...». Ciò che conta per Nela è «sentirsi più forte di prima». E Venditti anche stasera può dedicare al suo Sebino: «Ed il bosco e lo stadio si illumina a giorno un applauso ti farà, corri forte dietro al cespuglio, acqua pura ci sarà...
"IL TOGO AI GIOCHI DELLA NEVE. LA SCOMMESSA DI JAYJAY"
Ultimo nel 2012 ai Mondiali, il primo togolese dello sci nordico ci riproverà a Sochi 2014.
La distanza dai Giochi Olimpici di Sochi 2014 è misurata da un contatore che scorre su una pagina internet: giorni, ore, minuti e secondi che separano il Togo da un piccolo avvenimento storico. Il paese africano ha intenzione di essere protagonista ai Giochi Invernali, impresa vera per una nazione che nelle grandi competizioni sportive ha una tradizione minuscola: nove partecipazioni alle Olimpiadi estive e una sola medaglia vinta, un bronzo nel kayak a Pechino 2008. Lo scorso inverno è arrivata la sorpresa: il Togo ha creato una Federazione Sci. Merito di Akpedjé-Viossi Gervasio Madja, per tutti JayJay. Il primo sciatore di fondo nella storia del Togo ha debuttato sulla scena internazionale ai Mondiali di Val di Fiemme 2012. L’atleta a Tesero si è fatto notare più per le note di folklore che per i risultati. Ultimo e subito eliminato nella gara sprint, ritirato dopo pochi chilometri nello skiathlon quando era già stato doppiato dal gruppo dei migliori. «I risultati ai Mondiali non sono stati soddisfacenti, ma abbiamo creato una federazione dal nulla solo poco più di un anno fa.
Abbiamo la fortuna di avere un atleta che si allena in Germania e che la Fis ha inserito nel novero degli atleti pro. Avete idea di quanto sia difficile? Per noi è già un bel risultato...», spiega Ramanou Mawuli, segretario generale della Federazione. «Parteciperemo ai Giochi di Sochi per migliorarci e speriamo di poterci aprire anche ad altre discipline». Con un obiettivo chiarissimo: «Far conoscere il Togo nei Paesi che praticano gli sport invernali e creare sensazione».
JayJay Madja, intanto, prosegue nel suo programma d’allenamento in Baviera. Lui, che fino a un anno e mezzo fa era un ingegnere ben integrato nella vita del paese europeo dove è cresciuto (si è trasferito con la famiglia quando aveva solo otto anni), si è ritrovato catapultato sotto i riflettori di uno sport mai praticato fino
a un anno fa. «Appena mi hanno messo gli sci ai piedi mi sono sentito come un neonato che non sa camminare». Ad allenarlo ci ha pensato Toni Hiltmair, istruttore della scuola di sci Powderworld, colui che ha messo in piedi dal punto di vista tecnico il progetto. Un’anima teutonica sulla quale poggia il progetto Team Togo, completo di pagina internet e fan su Facebook. Quando JayJay ha deciso di imparare a sciare di fondo, Hiltamair ha pensato di sfruttarne il potenziale per convertirlo in un atleta e dare un’aura mediatica al tutto. Ora l’obiettivo è perdere qualche chilo, migliorare la tecnica e aspettare i Giochi. E magari iniziare a scrivere qualcosa nella sezione già predisposta dell’albo d’oro.
AVVENIRE.IT DEL 03/07/2013
"LA MEDAGLIA DEI LEALI"
Vogel e Anaya, piccole storie di sport vissuto in grande.
Hai voglia a spiegare che vincere non è un imperativo categorico, specie in un contesto sportivo dove ci si rende conto che fra doping e scorrettezze d’ogni tipo si cerca l’impossibile per prevalere sugli altri. Esiste una fortuna però, ed è legata a quelli cui resta ancora un briciolo di amor proprio. A quelli, per dirla tutta, che con un semplice segno di lealtà riescono a restituire la dignità smarrita dagli altri. Questo è il caso di due
mezzofondisti, una ragazza statunitense e un atleta spagnolo, premiati nei giorni scorsi a Losanna, nella sede del Cio, per i veri momenti di gloria dello sport: quelli legati al fair play. Gesti onesti, non eclatanti; e istantanee legate a chi rispetta gli avversari, sempre e comunque. Lei, Meghan Vogel, si trovava a Columbus,
nell’Ohio, quasi al traguardo di una corsa da 3200 metri. Lì, a 150 metri dal filo di lana, osservando l’atleta che la precedeva, Arden McMath, si accorse delle sue difficoltà: la McMath stava stramazzando al suolo, cotta dalla fatica, praticamente ferma, gambe piegate e sguardo perso nel vuoto. Ricordate l’Olimpiade del 1984, quando una maratoneta svizzera, Gabriela Andersen-Schiess, impiegò più di cinque minuti per compiere l’ultimo giro di pista, tutta piegata da una parte, quasi al collasso? Ecco, nell’Ohio stava accadendo
qualcosa di simile. Così la diciassettenne Vogel, classica ragazza da college, bella, bionda e pimpante pure sul rettilineo finale, non ci ha pensato due volte: si è caricata l’avversaria in spalla portandola con sé fino al traguardo. Il premio in questione, il Fair Play Awards (ideato dall’Associazione internazionale della stampa
sportiva) è stato assegnato anche allo spagnolo Ivan Fernandez Anaya, pronto ad accorgersi durante una gara di corsa campestre disputata a Burlada che l’antagonista in testa alla gara, Abel Mutai (fra le altre cose tutt’altro che l’ultimo della classe visto che è stato bronzo olimpico a Londra 2012) aveva confuso la linea del traguardo. S’era fermato cioè una decina di metri prima del finish, convinto d’aver concluso la gara. Così l’iberico lo raggiunse ma non lo superò, lo avvisò dell’errore, gli indicò il vero traguardo e arrivò alle sue spalle. «Non me lo sarei perdonato di vincere una gara in maniera scorretta», ha dichiarato Anaya. Gesti d’altri tempi, verrebbe da scrivere, da libro Cuore, meritevoli d’un premio perché diventano spesso e volentieri un unicum, atteggiamenti isolati e nulla più.
All’interno della stessa manifestazione a Losanna, Davide Ballardini è stato premiato dall’Associazione internazionale della stampa sportiva (Aips), presieduta da Gianni Merlo, per il suo gesto di fair play in occasione di Roma-Genoa, che gli è costata anche l’espulsione. Il tecnico del club ligure (oggi ex) fu cacciato dall’arbitro Gervasoni dopo aver invaso il campo di gioco per fermare la partita e richiamare l’attenzione poiché nessuno si era accorto che il giocatore della Roma, Osvaldo era a terra per infortunio. Un gesto “normale” che, purtroppo, diventa speciale.
AVVENIRE.IT DEL 25/07/2013
"LO SCUDETTO DI NELA «HO BATTUTO IL CANCRO»"
L’ultima sfida vinta dal difensore della Roma campione d’Italia dell’83: «A sconfiggere il tumore mi ha aiutato la preghiera, l’amore della mia famiglia e il grande sostegno degli ex compagni di squadra».
«E correndo correndo di notte da solo, prendi la tua tuta blu, stella stella crudele e sincera, fammi correre di più...», canta Antonello Venditti in Correndo correndo. È il brano dedicato a uno dei suoi eroi della “magica Roma” (quella dello scudetto, stagione 1982-’83) il fluidificante della corsia di sinistra Sebastiano Nela, per la torcida giallorossa, semplicemente Sebino il grande. Venditti quella canzone la incise nel 1987, quando Nela era alle prese con il recupero da un brutto infortunio al ginocchio. «Picchia Sebino», chiedevano a gran
voce i Ragazzi della Sud, e lui, a 52 anni, ha appena finito di “picchiare” l’avversario più ostico che abbia mai incontrato, il cancro. «Lo scorso autunno mi diagnosticarono un tumore al colon con presenza di metastasi.
I medici mi dissero che non c’era tempo da perdere, così il 14 novembre sono stato operato». Poi la dura lotta contro il male e le sedute di chemioterapia. «La prima sensazione naturalmente è stata di paura. Paura di non farcela, il terrore della morte che condividi con tante persone... Finchè certe esperienze non ti toccano
direttamente, molto spesso non si ha idea di quanta gente ci sia negli ospedali che soffre – dice emozionato Nela – . Sono stati 8 mesi difficili e il pensiero a volte andava a mio padre che due anni fa è morto di cancro.
Ho pregato Dio che mi desse la forza di reagire. Ho preso la situazione di petto, cercando di mantenere sempre uno spirito positivo, anche perché non mi andava di farmi vedere giù di morale da mia moglie e dalle nostre due figlie. L’amore della mia famiglia è stato fondamentale per uscire dal tunnel». Poi c’è stato il grande affetto della sua seconda famiglia, la Roma dello scudetto di trent’anni fa. «I ragazzi (Conti, Pruzzo, Chierico e gran parte di quella rosa giallorossa che risiede ancora a Roma, ndr) sono stati meravigliosi e non smetterò mai di ringraziarli per il loro affetto e il sostegno che mi hanno dato. Ogni lunedì sera organizzavano una cena per stare assieme e per non farmi pensare alle terapie alle quali dovevo sottopormi durante la settimana. E poi è stato importante continuare a lavorare come commentatore. A quelli di Mediaset ho solo chiesto nei mesi invernali di non spedirmi troppo lontano, non potevo rischiare di beccarmi un’influenza...». Ora l’inverno è finito da un pezzo e con la primavera Sebino, ha picchiato ancora duro contro il male. L’ultimo ciclo di chemio l’ha sostenuto tre settimane fa e l’11 luglio il risultato finale dice che ha vinto ancora lui. «La tac ha dato esito positivo, tutti i valori sono tornati alla normalità... Provi a non pensarci più, ma poi pensi che vorresti fare qualcosa per chi sta ancora male, specie per i bambini. E poi quando senti che Tito Vilanova ha dovuto lasciare il Barcellona per una recidiva provi tanta amarezza, perché sai che cosa significa dovere combattere tutti i giorni contro certo malattie. Ma un attimo dopo mi dico anche che è tempo di andare avanti e di ricominciare..». Ha ricominciato da Riscone di Brunico, dove è in ritiro la Roma di Garcia e domenica Sebino è pure tornato in campo con le vecchie glorie romaniste nella partita di beneficenza contro la Nazionale dei magistrati. «Abbiamo vinto noi e per me in questo periodo è come essere tornato ai
giorni dei festeggiamenti per il nostro scudetto». Il secondo storico tricolore della “Maggica” guidata dal barone Nils Liedholm; la società di quel nobil signore del senatore Dino Viola. «Credo che tranne per le ultime generazioni, la nostra Roma sia rimasta nel cuore dei tifosi molto più di quella di Capello che vinse lo scudetto nel 2001... Forse perché era una squadra tutta italiana, forse perché era ancora un calcio più umano. Oggi c’è una proprietà americana con dirigenti che spuntano da tutte le parti, comprano 40 giocatori e mettono sotto contratto venti fisioterapisti.
Insomma non si capisce più niente». Parola della “bandiera Nela” che è rimasto profondamente legato alla Roma e ha sempre sognato di poterci tornare a lavorare un giorno. Ma a parte Bruno Conti, della vecchia guardia non c’è mai stato spazio per nessuno di quei ragazzi dell’83. «C’è solo Bruno è vero, e anche lui durante l’era Sensi ha avuto dei momenti in cui stava per mollare... Io sono stato a un passo dal rientro, quando ho fatto da mediatore per portare Rudi Voeller sulla panchina della Roma.
L’operazione andò in porto, ma qualcuno ha pensato che non meritassi neppure un “grazie” e mi hanno sbattuto la porta in faccia. Ma va bene così: ho un patentino da direttore sportivo e quello da allenatore di prima categoria. Faccio il commentatore in tv e ho spalle belle larghe, continuo per la mia strada». Le spalle grosse, come i polpacci del gladiatorio Sebino, 281 battaglie (con 16 gol segnati) combattute con la maglia giallorossa e allenato fin dagli inizi a non arrendersi mai. «La mia carriera poteva chiudersi già a vent’anni. In un Napoli-Roma per la gomitata fortuita del mio compagno Dario Bonetti ebbi un arresto cardiaco.
Per undici anni a ogni inizio stagione dovevo andare a Trento a farmi confermare l’idoneità agonistica dal prof. Furlanello. Quando sento di giovani calciatori che muoiono o di quei colleghi come Borgonovo che sono stati stroncati dalla Sla qualche domanda me la faccio... La mia generazione, che io sappia, può avere abusato di micoren e di voltaren e di qualche “bibitone”, ma personalmente non solo non ho mai preso nessuna sostanza, ma ho perfino repulsione per l’ago. Il doping aiuterà a correre di più, ma nel calcio la differenza la fa ancora la tecnica. E con quello che circola da noi, gente come Totti e Pirlo possono campare di rendita ancora per parecchio». Mancano i fantasisti, ma anche i fluidificanti alla Nela («se è per questo anche i portieri, togli Buffon il resto sono solo stranieri», sottolinea Sebino) che ha un solo rimpianto: la Nazionale. «Feci i Mondiali di Messico ’86 con Bearzot, dopo Vicini mi aveva promosso titolare, ed erano anni in cui in per quel ruolo c’erano De Agostini, Carobbi, Di Chiara e stava sbocciando Paolo Maldini. Poi l’infortunio e sono rimasto con sole 6 presenze in azzurro, ma ne avrei potute fare almeno una ventina.
Però, ora più che mai, so che sono altre le cose che contano, anche nella vita di un uomo di calcio...». Ciò che conta per Nela è «sentirsi più forte di prima». E Venditti anche stasera può dedicare al suo Sebino: «Ed il bosco e lo stadio si illumina a giorno un applauso ti farà, corri forte dietro al cespuglio, acqua pura ci sarà...