Nel carcere modello in cui si fa tanto
sport la squadra dei detenuti partecipa a un torneo Figc. Prenna: «Sono l’unico
mister a Milano che ha mangiato 11 panettoni di fila».
Non è mai troppo scontato, quando vi dicono che un pallone dietro
le sbarre è un piccolo-grande assist per quella libertà che ogni detenuto
sogna di riconquistare una volta scontata la sua pena.
Nella
Seconda Casa di Reclusione di Milano, alias il Carcere di Bollate, una forma di
libertà è giocare con una pallina da tennis, come fanno una cinquantina di
detenuti/e. Schiacciare a rete come la squadra di pallavolo della sezione
femminile. Chi non vuole darsi all’ippica - ci sono anche i corsi di
equitazione - e ha fiato per correre, o si dà all’atletica, al rugby o può
tentare di entrare nella squadra di calcio: la “Casa di Reclusione di Milano
Asd”. È questa formazione il vero fiore all’occhiello del movimento sportivo
all’interno dell’istituto.
L’allenatore
è Nazzareno Prenna, 57 anni, marchigiano di Tolentino che parla con l’accento
del suo «idolo e collega, Fabrizio Castori», ma ha il volto e la gestualità
esilarante del comico Antonio Albanese. Calcio d’inizio di mister Prenna che
si presenta così: «Permettete, sono l’unico mister di una formazione milanese
che anche questo Natale ha mangiato il panettone. E sono 11 di fila. Questa
squadra dovreste vederla, è una cosa stupenda…». Vederla è concesso a pochi:
le gare “casalinghe” si disputano rigorosamente a porte chiuse sul campetto
spelacchiato del carcere. Quelle porte invece al mister si aprono tutti i
giorni, dalla stagione calcistica
2002-2003. «Abbiamo cominciato in accordo con l’allora direttore Lucia Castellano
e la vicedirettrice Cosima Buccoliero che è anche il nostro “Presidente”
(vicepresidente è l’attuale direttore del carcere Massimo Parisi)», spiega
mister Prenna, fiero di guidare l’unica squadra composta interamente da
detenuti che milita in un regolare campionato della Figc.
«Ora
siamo tornati in Terza Categoria, ma nel 2006 abbiamo vinto un campionato di Seconda.
Il nostro titolo più importante resta comunque la Coppa Disciplina. In undici
anni mai un’intempe- ranza in campo. E sì che in
squadra ho avuto anche gente condannata a pene molto lunghe, ma nessuno ha mai
avuto atteggiamenti violenti in campo, né con gli avversari, né tanto meno con
gli arbitri». Merito di un gruppo che si autodisciplina e che finanziariamente
ha sposato l’autarchia. «Il carcere
paga l’iscrizione al campionato che è già molto, poi però tutto il
materiale tecnico, a cominciare dalle “maglie gialle” che indossiamo, è tutto
a carico nostro. Chi ha qualcosa in più, spesso paga anche per il compagno che
non può permetterselo. Le scarpette con i tacchetti chiodati sono un lusso, la
maggior parte gioca con quelle con la suola di gomma e quando il campo è
fradicio di pioggia si possono ammirare dei “campioni di sci d’acqua”… Ma si
divertono e soprattutto imparano a rispettare le regole. E questo è il nostro
obiettivo principale all’inizio di ogni campionato». Ma ogni stagione la rosa cambia
e si rinnova, e non sempre con dei vantaggi, tecnicamente parlando. La
scrematura per la rosa che parteciperà al campionato avviene sui 300-400
detenuti visionati durante l’annuale torneo interno. Terminate le selezioni, i
tesserati saranno al massimo una trentina, ma mister Prenna è da tempo alle
prese con quello che considera “il problema”. «Ogni stagione perdo una media
di 11 calciatori. A me - dice con un tono alla “Alex Drastico” - l’indulto del
2006 mi ha rovinato. Avevamo la più forte formazione di sempre, poi in un
colpo solo se ne sono andati tutti i migliori. Ho provato anche a rin- tracciarli girando come un
pazzo per i quartieri di Milano, a qualcuno l’ho pregato di continuare a giocare
come “esterno”. Ma non c’è stato verso di convincerli, una volta fuori di qui,
la prima cosa che fanno è dimenticare».
Il mister invece non dimentica nessuno dei suoi giocatori. «Il più forte che ho avuto? Un difensore albanese, Zogu, ma farei torto a tanti altri che si sono rivelati dei buoni calciatori. Sono orgoglioso di aver cresciuto un paio di generazioni di “analfabeti calcistici” con dei risultati spesso insperati». Il risultato più importante dell’Asd Bollate però non è puntare alla promozione, ma quella che il mister chiama la “lotta per la sopravvivenza”. «Dobbiamo ringraziare gli agenti per la grande mano che ci danno. Fino a quando non c’era il permesso di uscire per giocare in trasferta, abbiamo disputato dei campionati con “formazioni miste”: in casa schieravo la squadra dei detenuti e fuori quella della Polizia penitenziaria. I risultati erano altalenanti, vittoria in casa e sconfitta quasi sicura fuori... Ma quell’esperienza ha creato un livello eccezionale di vivibilità e di collaborazione all’interno del carcere, con gli agenti sempre disponibili a venire incontro alle nostre esigenze».Anche adesso che i detenuti, grazie al calcio, possono compiere le loro “innocenti evasioni”, le trasferte restano comunque le partite più dure da affrontare.
Il mister invece non dimentica nessuno dei suoi giocatori. «Il più forte che ho avuto? Un difensore albanese, Zogu, ma farei torto a tanti altri che si sono rivelati dei buoni calciatori. Sono orgoglioso di aver cresciuto un paio di generazioni di “analfabeti calcistici” con dei risultati spesso insperati». Il risultato più importante dell’Asd Bollate però non è puntare alla promozione, ma quella che il mister chiama la “lotta per la sopravvivenza”. «Dobbiamo ringraziare gli agenti per la grande mano che ci danno. Fino a quando non c’era il permesso di uscire per giocare in trasferta, abbiamo disputato dei campionati con “formazioni miste”: in casa schieravo la squadra dei detenuti e fuori quella della Polizia penitenziaria. I risultati erano altalenanti, vittoria in casa e sconfitta quasi sicura fuori... Ma quell’esperienza ha creato un livello eccezionale di vivibilità e di collaborazione all’interno del carcere, con gli agenti sempre disponibili a venire incontro alle nostre esigenze».Anche adesso che i detenuti, grazie al calcio, possono compiere le loro “innocenti evasioni”, le trasferte restano comunque le partite più dure da affrontare.
«È una
questione psicologica. Si entra nel blindato e per motivi di sicurezza
arriviamo scortati un minuto prima che la partita cominci, così spesso non si
riesce neppure a fare il riscaldamento. E poi la concentrazione è quella che
è, mentre i nostri avversari all’intervallo tra il primo e il secondo tempo
rientrano nello spogliatoio, i miei ne approfittano per andare a parlare e a
salutare, da dietro la rete di recinzione, i famigliari. Quello è un momento
talmente intimo e toccante per loro che non è che posso interromperlo per ricordargli
del mio 4-4-2 o rimproverarli il gol preso o sbagliato, mentre magari sfiorano
la guancia di un figlio...». Il mister tradisce un filo d’emozione che
manifesta apertamente quando ricorda Alessandro Gatti, un ragazzo della
squadra morto da poco di cancro. «Tutti assieme abbiamo deciso di onorare la
memoria di Alessando ritirando per sempre la sua maglia, la n. “7”. Alcuni
dell’Asd da quando sono entrati, sono usciti per la prima volta dal carcere per
partecipare ai funerali del loro compagno di squadra...». Il ricordo commuove
mister Prenna, poi si schiarisce la voce e prima di sciogliere le righe per la
fine dell’allenamento confessa: «Ho il patentino per allenare tra i
professionisti, ma il rispetto che mi sono guadagnato da questi ragazzi che, assieme
a me e al calcio, stanno cercando una seconda chance, mi fa sentire
l’allenatore più felice e fortunato del mondo... Permettete, anche più di Mourinho».