di don Alessio Albertini - Segretario Commissione Sport della Diocesi di Milano
mentre si stanno spegnendo le luci su quell’incredibile esperienza sportiva che sono le Olimpiadi, capaci di farmi gioire per una vittoria, emozionare per un gesto tecnico, arrabbiare per un giudizio falsato… mi resta anche il rammarico di non aver potuto tifare un grande atleta che stimo e apprezzo.
Lo dico sinceramente e senza falsi moralismi. Non voglio giudicare e neppure rimproverare. Voglio invece cercare di spiegarti quali ragioni mi hanno spinto a non voler rinunciare a fare ancora il tifo per te.
Innanzitutto perché da anni vengo con i ragazzi della mia parrocchia in vacanza proprio a Racines. Un luogo straordinario e incantevole. Un paradiso per chi è sempre immerso nella frenesia della città.
Chissà quante volte anche tu hai attraversato, di corsa, il sentiero che porta al Passo Giovo, oppure il fondovalle verso la Klammalm , hai ammirato e ascoltato il suono delle cascate di Stanghe… ma forse nella testa non più la serenità di una volta bensì il chiodo fisso di una domanda: “E se a Londra non vinco?”. La paura di una terribile sentenza affidata al destino di un risultato. Come se il valore di una persona dipendesse da una medaglia.
Ricordo alcune sere a Racines di aver alzato lo sguardo verso il cielo e di aver visto le stelle così vicine da poterle contare. “ Se guardo il cielo, la luna e le stelle…che cos’è l’uomo perché tu te ne dia pensiero”. Così recita un salmo della Bibbia.
Mi piace pensare che la grandezza di una persona non è data solamente da una medaglia al collo ma dal fatto che qualcuno gli ha regalato la vita per poter provare a conquistarla. Che tu vali perché il tuo papà, la tua mamma, i tuoi cari ti vogliono bene e che tu puoi sentirti vivo perché hai fatto tutto quello che era nelle tue possibilità.
Vorrei che il cielo stellato di Racines, che ancora ti accarezza e non ti abbandona, urlasse a tutti gli sportivi, e non solo, questa incredibile verità.
Una seconda ragione che non fa venire meno il tifo per te è che in più di un’occasione, nei miei incontri sul valore dello sport, citavo la tua frase di Pechino: “Non sono contento perché ho vinto ma ho vinto perché sono contento”.
Sembra stridere con le lacrime, la tristezza, la noia dei 35 km al giorno che per mesi hai dovuto sopportare. La ripetitività, la solitudine, la fatica, l’incognita del risultato ti hanno tolto il sorriso insinuandoti il sospetto che a tutto questo ci fosse un’alternativa, più veloce e più sicura.
In tempi in cui la legge del “tutto, subito e possibilmente facile” invitano a trovare le scorciatoie per rinunciare alla fatica e gustare la “gratificazione immediata”, il tuo ritrovato sorriso potrebbe sostenere la ripetitività dello studio di tanti giovani, la pazienza di chi sta vicino ai malati, la monotonia di un lavoro in fabbrica, la costanza di chi è in ricerca di un impiego. Il tuo sorriso faccia comprendere che non si può accettare fatica, disciplina, pazienza solo per un risultato perché finiremmo, senza volerlo, per assomigliare a dei servi se non a degli schiavi, con la voglia, prima o poi di liberarcene. Invece il sudore di una preparazione è un investimento su se stessi, utilissima per la propria libertà e felicità.
Torna ad essere felice, caro Alex! È l’augurio che ti voglio fare.
È giusto riconoscere i propri sbagli ma è un sentimento malato lasciarsi schiacciare dai propri errori. Quello che conta è perdonarsi e chiedere perdono per il proprio passato. Chi è capace di testimoniare la sofferenza del suo passato sbagliato può diventare un faro che aiuta nel mare mosso dello sport, ma soprattutto della vita.