Il 5 maggio
di 13 anni fa moriva il grande Gino. Il ricordo datato 1954 del collaboratore
di “Avvenire”, ai tempi ciclista dilettante: «Era la sua ultima gara ma mi
disse: non si può sempre vincere»
di Francesco Saverio Alonzo
Era il luglio del 1954 ed ero seduto in Paradiso, ossia per me tale era
quello scompartimento del diretto Roma-Torino in cui mi avevano fatto posto
Gino Bartali, Fiorenzo Magni ed altri campioni del ciclismo nazionale.
Eravamo
diretti a Follonica dove si sarebbe svolta una riunione in pista, aperta a
dilettanti e professionisti. Vedendomi salire in treno ad Orbetello, Bartali
mi disse: «Ah, tu sei di Orbetello, la mi’ sorella Anita ci gestisce il
negozio di cioccolate della Venchi Unica...». Gli risposi che da piccolo ero
stato un suo assiduo cliente.
«Ma
io ti riconosco», disse Bartali, puntando il dito sulla mia maglia della
società ciclistica “Libertas”. E poi aggiunse: «Ma allora sei rimasto
cattolico». Risposi di sì. Ci eravamo incontrati qualche anno prima a Siena
dove mi ero recato alla chiesa fuori Porta Camollia per ammirare la maglie
(rosa e gialle) che Bartali aveva dedicato alla Santissima Vergine.
Anni dopo venni assunto alla Banca Toscana: col primo stipendio comprai una
bicicletta da corsa e mi registrai come dilettante. E ora era venuta la
grande occasione.
Bartali
mi domandò: «Che mestiere fai?». «L’impiegato di banca », gli risposi. «Ma
vorrei fare il giornalista ». «Bravo! Allora comicia a farmi qualche domanda».
«Ma
che gli è successo a Coppi al Giro d’Italia? », domandai.
«Ah,
niente! Poteva essere successo a me perché anch’io sono goloso di frutti di
mare. La Bianchi
aveva stravinto la prima tappa che era una cronometro a squadre sul circuito
del Monte Pellegrino a Palermo e aveva festeggiato con una scorpacciata di
crostacei. E il giorno dopo Coppi e compagni dovettero fermarsi ogni chilometro
per via della dissenteria... ».
Scendemmo
a Follonica e accompagnai gli assi del pedale al velodromo che si rivelò
invece per ciò che era. E cioè l’ippodromo cittadino con curve piane. «Ragazzi
- disse Bartali dopo aver ispezionato il fondo della pista - , attenti a
quando entrate nella prima curva perché là il terriccio cede».
Dopo
un paio di corsette brevi per i dilettanti fu la volta dei professionisti. Il
Boni partì come una palla di cannone e alla prima curva slittò di fianco,
ferendosi a una gamba. Quella corsa, che era una individuale ad eliminatoria,
la vinse Magni. Quella successiva era un’americana a coppie e Bartali, puntandomi
il dito addosso, disse: «Tu fai coppia con me». Ogni coppia doveva essere
formata da un professionista e da un dilettante. «Tu parti primo e quando io
ti raggiungo, stendi il braccio all’indietro e mi lanci in avanti, capito?»,
mi disse.
Feci
cenno di si col capo, ma tremavo. Comunque mi avviai con i corridori del primo
turno e a quella curva insidiosa avvenne il fattaccio. Sbattei col pedale per
terra, la bici sussultò e quando ricominciai a pedalare m’accorsi che le gambe
giravano a vuoto. Mi era saltata la catena. Tornai mogio mogio a sedermi sul
prato. A corsa finita, Bartali venne a sedersi sull’erba accanto a me e mi
disse: «Perché quel muso lungo? Non è mica colpa tua se ti è saltata la
catena. Eppoi non si può sempre vincere, bisogna anche saper perdere.
L’importante è di essere onesti e in pace con Dio. Un giorno va male e un
giorno va bene, basta non perdersi di coraggio. Forza giornalista!».
Me
ne tornai in treno ad Orbetello. Dopo quella riunione in pista (si fa per dire)
Gino Bartali attaccò la bicicletta al chiodo. In vita mia ho intervistato
regnanti, capi di governo, stelle dello sport e dello spettacolo, Premi
Nobel, ma il ricordo piú caro resta quella chiacchierata con Bartali, il
terziario francescano che salvò la vita a centinaia di ebrei, esponendosi a
gravi rischi, e volle essere sepolto scalzo e con addosso il saio. Sarebbe
senz’altro piaciuto a Papa Francesco.