I record, le vittorie e quel cuore che smise di battere per
14 minuti. Storia di un atleta che ha dovuto toccare il fondo per ricominciare
a correre. E a cui oggi la Nike
ha dato in mano il suo progetto più oneroso.
Si chiama Alberto Salazar ed è stato per tre volte vincitore della
maratona di New York e poi di quella di Boston, dove ha battuto i record dei
più grandi campioni americani nel 1980 e quello mondiale nel 1982. Oggi Salazar
è l’uomo intorno a cui ruota il più grande investimento della Nike. Il Nike
Oregon Project, da lui diretto e ideato, composto da atleti di altissimo
livello.
UNA STELLA. Quella di Salazar è una storia
di picchi e cadute «da cui sono stato risollevato». Salazar ha raccontato la
sua vicenda in 14 Minutes, biografia uscita
l’anno scorso negli Stati Uniti. È la storia di un ragazzino nato nel 1958 a Cuba il cui padre, ex
collaboratore di Fidel Castro, ingegnere civile e devoto cattolico, scappò
dall’isola con la famiglia perché minacciato dal dittatore. A Castro non era
piaciuto l’ostinazione di quell’ingegnere nel voler costruire edifici di culto
nell’isola liberata dalla rivoluzione.
Alberto crebbe in America con la passione per la corsa. I
primi anni della sua carriera furono ricchi di successi: nel 1978 a Cape Code alla
Falmouth Road Race vince dando tutto, fino a collassare. Pareva morto, tanto
che i medici avevano già chiamato un sacerdote per l’estrema unzione. Invece
Salazar si rialzò, marciando fino al traguardo. Nel 1980 vinse la maratona di
New York, e di seguito quella di Boston battendo il grande Dick Beardsley e
stabilendo il nuovo record mondiale. All’arrivo era così disidratato che gli
dovettero somministrare sei litri di liquidi. Un altro successo a New York e un
quarto posto ai Mondiali di cross del 1983.
Salazar si presentò alle Olimpiadi del 1984 come grande favorito.
Ma fu la prima delusione: si piazzò solo quindicesimo. A quel punto cadde in
una profonda depressione, che combaciò con l’allontanamento dalla fede di
famiglia fino alla creazione di un nuovo idolo: il successo. «Il mio Dio
era diventata la corsa», ha spiegato nella sua biografia.
OTTICA
NUOVA. Ma il fallimento si trasformò nella possibilità di ricominciare.
Dopo un viaggio a Medjugorje, in Bosnia, si riavvicina alla fede. Un percorso
spirituale decennale in cui capisce «che
tutto ciò che ci succede ha uno scopo». La vita di Alberto trovò un ritmo nuovo
e nuove priorità alle cose: «Mi sono reso conto di aver messo per anni la corsa
al primo posto e Dio all’ultimo. Quel luogo (Medjugorje, ndr) ha illuminato la
mia vita, anche quella passata. La fede, la malattia, i successi e persino i fallimenti.
Ho visto tutto in un’ottica nuova». Salazar riprese a correre e nel 1994 vinse la Comrades Ultra
Marathon. Dopodiché iniziò la sua carriera di allenatore anch’essa costellata
di soddisfazioni: molti suoi atleti sono arrivati al podio olimpico.
UNA
FEDE GENIALE. Salazar ha ideato e gestisce un
villaggio sportivo unico al mondo in cui si riproducono le condizioni
ambientali in cui corrono gli atleti più forti del globo: gli africani. «Noi
siamo al livello del mare, mentre i kenioti a ottomila piedi al di sopra; senza
un’altitudine simile non abbiamo chance di competere», ha dichiarato
l’allenatore a Sport Illustrated. Per questo
Salazar fa vivere i corridori in abitazioni progettate per rimuovere l’ossigeno
nell’aria come ad altitudini elevate, affinché sviluppino più globuli rossi
aumentando le proprie prestazioni. Ha fatto progettare software speciali per
controllare le condizioni degli atleti e determinare quanto velocemente si
possono allenare. Nel villaggio ci sono tapis roulant subacquei e bassa
gravità. Non solo, ogni dettaglio è curato, fino al cibo: «Se guardi gli etiopi
o i kenioti non è che aprono la porta e si mettono a correre perché sono così».
Per questo Salazar ha ricreato in America una piccola Africa.
«ERO COME SAN TOMMASO». Le caratteristiche particolari del progetto Nike però non sono
solo queste. Gli atleti dell’Oregon Project pregano e partecipano tutti alle
proprie funzioni religiose. Molti hanno criticato Salazar dicendo che una tale
impostazione porta gli sportivi all’esaurimento nervoso. Ma lui è irremovibile:
«Sono certo che avendo abbastanza fede si possano ottenere cose straordinarie»,
che sicuramente «non vengono sempre con la guarigione improvvisa dalla
depressione o con un miracolo, ma anche con l’insistenza». A proposito di
“miracoli”: Salzar è convinto di averne vissuto uno. Nel 2007 fu colpito da un
infarto mentre allenava. Il cuore si fermò per 14 minuti (da cui il titolo
dell’autobiografia) e poi ricominciò a battere.
PASSO DOPO PASSO. A chi lo accusa di mischiare la sua fede con il lavoro, lui
ribatte che la stabilità, la concentrazione e la pazienza hanno molto a che
fare con le proprie convinzioni religiose. E che «correre non ti fa
necessariamente felice, la felicità deve venire da un’altra parte. Per questo
quando è tutto finito, e ho smesso di allenare, voglio che i miei atleti
sentano che li ho aiutati a correre saggiamente, ma anche a vivere saggiamente.
Voglio che corrano al meglio, ma non ad ogni costo». Perché «la maratona non è
la vita. È la vita che è una maratona in cui metti un piede davanti all’altro,
e così facendo dici a milioni di persone che nulla è tuo e che sei pronto ogni giorno
a correre verso ciò che la vita ti riserva ancora». Per questo Salazar
ringrazia dei miracoli che lo hanno scosso: «La fede si gioca nelle corsa
quotidiana, passo dopo passo».