"ALBERTO SALAZAR, IL MARATONETA DI DIO: «LA FEDE SI GIOCA NELLA CORSA QUOTIDIANA, PASSO DOPO PASSO»": DA TEMPI.IT DEL 19/06/2013

I record, le vittorie e quel cuore che smise di battere per 14 minuti. Storia di un atleta che ha dovuto toccare il fondo per ricominciare a correre. E a cui oggi la Nike ha dato in mano il suo progetto più oneroso.

Si chiama Alberto Salazar ed è stato per tre volte vincitore della maratona di New York e poi di quella di Boston, dove ha battuto i record dei più grandi campioni americani nel 1980 e quello mondiale nel 1982. Oggi Salazar è l’uomo intorno a cui ruota il più grande investimento della Nike. Il Nike Oregon Project, da lui diretto e ideato, composto da atleti di altissimo livello.

UNA STELLA. Quella di Salazar è una storia di picchi e cadute «da cui sono stato risollevato». Salazar ha raccontato la sua vicenda in 14 Minutes, biografia uscita l’anno scorso negli Stati Uniti. È la storia di un ragazzino nato nel 1958 a Cuba il cui padre, ex collaboratore di Fidel Castro, ingegnere civile e devoto cattolico, scappò dall’isola con la famiglia perché minacciato dal dittatore. A Castro non era piaciuto l’ostinazione di quell’ingegnere nel voler costruire edifici di culto nell’isola liberata dalla rivoluzione.
Alberto crebbe in America con la passione per la corsa. I primi anni della sua carriera furono ricchi di successi: nel 1978 a Cape Code alla Falmouth Road Race vince dando tutto, fino a collassare. Pareva morto, tanto che i medici avevano già chiamato un sacerdote per l’estrema unzione. Invece Salazar si rialzò, marciando fino al traguardo. Nel 1980 vinse la maratona di New York, e di seguito quella di Boston battendo il grande Dick Beardsley e stabilendo il nuovo record mondiale. All’arrivo era così disidratato che gli dovettero somministrare sei litri di liquidi. Un altro successo a New York e un quarto posto ai Mondiali di cross del 1983.
Salazar si presentò alle Olimpiadi del 1984 come grande favorito. Ma fu la prima delusione: si piazzò solo quindicesimo. A quel punto cadde in una profonda depressione, che combaciò con l’allontanamento dalla fede di famiglia fino alla creazione di un nuovo idolo: il successo. «Il mio Dio era diventata la corsa», ha spiegato nella sua biografia.
OTTICA NUOVA. Ma il fallimento si trasformò nella possibilità di ricominciare. Dopo un viaggio a Medjugorje, in Bosnia, si riavvicina alla fede. Un percorso spirituale decennale in cui capisce  «che tutto ciò che ci succede ha uno scopo». La vita di Alberto trovò un ritmo nuovo e nuove priorità alle cose: «Mi sono reso conto di aver messo per anni la corsa al primo posto e Dio all’ultimo. Quel luogo (Medjugorje, ndr) ha illuminato la mia vita, anche quella passata. La fede, la malattia, i successi e persino i fallimenti. Ho visto tutto in un’ottica nuova». Salazar riprese a correre e nel 1994 vinse la Comrades Ultra Marathon. Dopodiché iniziò la sua carriera di allenatore anch’essa costellata di soddisfazioni: molti suoi atleti sono arrivati al podio olimpico.

UNA FEDE GENIALE. Salazar ha ideato e gestisce un villaggio sportivo unico al mondo in cui si riproducono le condizioni ambientali in cui corrono gli atleti più forti del globo: gli africani. «Noi siamo al livello del mare, mentre i kenioti a ottomila piedi al di sopra; senza un’altitudine simile non abbiamo chance di competere», ha dichiarato l’allenatore a Sport Illustrated. Per questo Salazar fa vivere i corridori in abitazioni progettate per rimuovere l’ossigeno nell’aria come ad altitudini elevate, affinché sviluppino più globuli rossi aumentando le proprie prestazioni. Ha fatto progettare software speciali per controllare le condizioni degli atleti e determinare quanto velocemente si possono allenare. Nel villaggio ci sono tapis roulant subacquei e bassa gravità. Non solo, ogni dettaglio è curato, fino al cibo: «Se guardi gli etiopi o i kenioti non è che aprono la porta e si mettono a correre perché sono così». Per questo Salazar ha ricreato in America una piccola Africa.
«ERO COME SAN TOMMASO». Le caratteristiche particolari del progetto Nike però non sono solo queste. Gli atleti dell’Oregon Project pregano e partecipano tutti alle proprie funzioni religiose. Molti hanno criticato Salazar dicendo che una tale impostazione porta gli sportivi all’esaurimento nervoso. Ma lui è irremovibile: «Sono certo che avendo abbastanza fede si possano ottenere cose straordinarie», che sicuramente «non vengono sempre con la guarigione improvvisa dalla depressione o con un miracolo, ma anche con l’insistenza». A proposito di “miracoli”: Salzar è convinto di averne vissuto uno. Nel 2007 fu colpito da un infarto mentre allenava. Il cuore si fermò per 14 minuti (da cui il titolo dell’autobiografia) e poi ricominciò a battere.
PASSO DOPO PASSO. A chi lo accusa di mischiare la sua fede con il lavoro, lui ribatte che la stabilità, la concentrazione e la pazienza hanno molto a che fare con le proprie convinzioni religiose. E che «correre non ti fa necessariamente felice, la felicità deve venire da un’altra parte. Per questo quando è tutto finito, e ho smesso di allenare, voglio che i miei atleti sentano che li ho aiutati a correre saggiamente, ma anche a vivere saggiamente. Voglio che corrano al meglio, ma non ad ogni costo». Perché «la maratona non è la vita. È la vita che è una maratona in cui metti un piede davanti all’altro, e così facendo dici a milioni di persone che nulla è tuo e che sei pronto ogni giorno a correre verso ciò che la vita ti riserva ancora». Per questo Salazar ringrazia dei miracoli che lo hanno scosso: «La fede si gioca nelle corsa quotidiana, passo dopo passo».