
DAL VESCOVO AL CICLISTA. L’accoglienza della suora nelle sale del suo
istituto era il terminale di una rete di soccorso clandestina che solo dopo
tanti anni riusciamo a conoscere con precisione: l’anello più famoso e
singolare era Gino Bartali,
che fingeva di allenarsi e portava da Firenze ad Assisi, nascosti nella canna
della sua bicicletta, fogli, fotografie e documenti falsi per far espatriare i
rifugiati. Non a caso il ciclista lo scorso settembre è stato dichiarato
“Giusto tra le Nazioni” da Yad Vashem, ma come a lui il riconoscimento è
toccato anche ad altri attori della vicenda: il cardinale di Firenze Elia Dalla
Costa, quello di Assisi Giuseppe Placido Nicolini, il guardiano del convento
padre Rufino Niccacci e pure i tipografi di documenti falsi Luigi e Trento
Brizi. Mancava solo suor Giuseppina e le sue consorelle del monastero, il cui
impegno nel aiutare diverse famiglie ebree era stato unico: talvolta accolte
nel dormitorio, altre volte ricoverate negli ambienti della clausura o nascoste
nei sotterranei.

NEL ’44 RISCHIARONO DI ESSERE
SCOPERTE. Finché
nel febbraio del ’44 la rete non rischiò di essere sgominata del tutto: venne
infatti scoperto un giovane croato ricercato dalla polizia, Paolo Josza.
Documenti falsi in mano, quando gli venne chiesto dove alloggiava, parlò del
monastero di San Quirico. I funzionari della Repubblica Sociale si presentarono
così al convento. Appena il tempo di nascondere alcuni rifugiati, le suore
radunate in preghiera, madre Maria affrontò le minacce d’arresto: «Eccomi
pronta; munitevi di permesso, perché sono monaca di clausura e non posso
abbandonarla senza autorizzazione». Son sempre le memorie di suor Biviglia a
parlare: «Per grazia di Dio non ne fu nulla. Dio sa quanto mi premeva la sorte
di quei poveri giovani, quanto tremavo anche per il Monastero e con quale
intimo spasimo cercassi di mostrarmi calma e sicura».