Fermato dal morso di un cane il gigante azzurro si racconta:
«Coraggio, spirito di gruppo, lealtà: il rugby per me è tutto Perdiamo sempre?
Ma lavorando e programmando si cresce».
Martin Castrogiovanni, professione “pilone”: schiena piegata,
muscoli d’acciaio e quei capelli ribelli che lo fanno sembrare un gladiatore.
Martin ci mette sempre il muso, perché nella palla ovale si dice che i rugbisti
«mettono la faccia dove le persone non mettono nemmeno le mani». Detto, fatto.
Anche domenica scorsa a Roma quando gli hanno applicato 14 punti di sutura sul
naso. Colpa del cane di un amico con cui stava giocando mentre è passato un
altro cane che ha scatenato la reazione del primo. Castrogiovanni si è messo in
mezzo, quasi si trattasse di una mischia, e ad essere morso in pieno viso alla
fine è stato lui. Fuori uso, proprio lui che a Tolone, dove vive con la
fidanzata, di cani ne ha ben tre.
La partita di Edimburgo si fa così proibitiva, oggi senza
“Castro” in campo sarà ancora più dura. Perché è uno dei migliori piloni al
mondo con le sue oltre 100 presenze in azzurro. Nato in Argentina da una
famiglia originaria di Enna è arrivato a Calvisano a vent’anni nel 2001
vestendo già l’azzurro nel 2002. Poi tanta Inghilterra a Leicester per sette
anni e ora a Tolone. Coppe e scudetti. Il rugby è qualcosa che ti entra, è una
metafora della vita stessa: «In mischia, per andare avanti, non hai bisogno
solo dei piloni più forti o delle seconde linee più alte e pesanti - spiega lui
-. Bisogna lavorare tutti all’unisono. Allora si va avanti e si guadagnano
anche pochi centimetri,
ma insieme».
Martin,
ma se non fosse stato un pilone in quale altro ruolo le sarebbe piaciuto
giocare?
«Non riesco a immaginarmi in un altro ruolo. Piloni si nasce,
non si diventa. Noi piloni siamo quelli sempre più cicciottelli e lenti,
avremmo sempre voluto essere il numero 10, l’apertura. Ma il fisico non ce lo
permette. Come quando si gioca a calcio che c’è sempre quello sovrappeso che
pensa di essere Maradona o Messi: ecco, noi piloni siamo un po’ così».
Se
non fosse stato un rugbista, cosa avrebbe
fatto?
«Da piccolo giocavo a basket ma volevo la palla ovale. A scuola
tutti i miei compagni ci giocavano e vedevano me così grosso e mi dicevano:
«Devi venire anche tu». A 17 anni convinsi finalmente mia madre, che aveva paura che mi facessi male».
Perché
un bambino oggi dovrebbe giocare
a rugby? Cosa le ha dato questo sport?
«Il rugby è la mia vita. Uno sport aggressivo e duro all’apparenza,
ma corretto e leale nella sostanza. Servono i sogni, i ragazzi devono avere una
grande ambizione. Ed essere disposti a sacrificarsi ogni giorno, rispettando ed
imparando dai più anziani. Cercando sempre di aiutare chi sta al nostro fianco,
perché è solo così che aiutiamo noi
stessi».
È
mai rimasto deluso da un compagno?
«Mai, forse da qualche allenatore, ma dai miei compagni mai.
Nessuno si tira mai indietro e ognuno aiuta l’altro. È questo che rende
speciale il rugby».
Vinceremo
di più con la Nazionale nel prossimo
decennio?
«I giovani possono dare tanta energia a questa squadra di
vecchietti. C’è un movimento dietro che è vivo e questi ragazzi vanno formati e
bisogna far fare loro esperienza ».
Un
suggerimento alla Federazione?
«Nella cultura italiana si cerca il risultato subito, si pensa
al quotidiano senza preoccuparsi troppo di programmare. Bisognerebbe lavorare
per crescere, per far parte tutti insieme di un progetto comune».
Ha
mai avuto paura in campo?
«No, se avessi paura non farei questo sport. Il rugby è uno
sport di contatto, siamo abituati allo scontro, al placcaggio. A Roma nel
febbraio 2012 mi procurai la frattura scomposta di una costola nella partita
contro l’Inghilterra e sembrava che il mio 6 Nazioni si fosse chiuso in anticipo.
Per l’ultimo impegno contro la Scozia volevo tornare in campo ad ogni costo. In
quelle settimane continuai ad allenarmi, soffrendo le pene dell’inferno,
sottoponendomi ad una terapia laser che ha accelerato la saldatura dell’osso. E
con una speciale protezione sono sceso in campo. Per i dottori fu un mezzo miracolo».
I
suoi migliori amici sono rugbisti?
«Franco Sbaraglini, Sergio Parisse e Gonzalo Canale: abbiamo un
rapporto di amicizia che dura da anni, siamo diversi e per questo andiamo
d’accordo. Con Sergio e “Gonza” abbiamo anche scritto il libro “L’ovale
rimbalza male”. Raccontiamo i valori del rugby e come lo siano anche nella
vita».
Tra
le tante iniziative anche l’Associazione Olivia,
ce ne parla?
«Olivia è la figlia di un mio compagno di squadra di Calvisano.
Quando sua moglie rimase incinta purtroppo i medici le diagnosticarono una
infezione virale ma non sapevano quale parte del corpo della bambina avrebbe
colpito. Così lui mi chiese se avessi portato il nome di sua figlia sul braccio
durante le mie partite. Io glielo promisi. I bambini ti danno la forza per
superare ogni ostacolo e questa associazione è parte del mio cuore. Il 15 marzo
fuori dall’Olimpico sarà allestito lo stand di Olivia e sarà possibile
acquistare il calendario realizzato coi bimbi dell’Associazione».
A
Tolone ha vinto tanto, ma ultimamente il rapporto con la società è agli
sgoccioli. Più felice o deluso?
«Giocare a rugby a Tolone è come giocare a calcio a Napoli.
Gente aperta, simile a noi, in strada c’è sempre qualcuno che ti riconosce.
Appena arrivato ho vinto Campionato e Heineken Cup, proviamo a ripeterci anche
se sarà dura».
Lei
è un vulcano, difficile fermarla...
«Lo spirito di gruppo è tutto. Un singolo, anche se forte, nel
rugby non va da nessuna parte, ha bisogno degli altri 14 per lottare insieme e
vincere una partita».