"VELASCO: VINCE CHI SA PERDERE": DA AVVENIRE.IT DEL 21/03/2015

Il tecnico di volley ai ragazzi di un oratorio: lezione di vita sul coraggio di superare i propri limiti e l’intelligenza di accettarli. E su cosa voglia dire giocare per la squadra.

Ha vinto ovunque sia andato, eppure è il primo a mettere in guardia da chi fa del successo la propria ragione di vita. Da oltre vent’anni Julio Velasco è il punto di riferimento indiscusso di un intero movimento sportivo, quello del volley, ma non ha problemi ad ammettere che «sì, spesso anche io ho sbagliato le mie scelte, cosa pensavate?». È stato protagonista nei palazzetti di mezzo pianeta (dopo aver conquistato due campionati asiatici allenando l’Iran, si è messo alla guida della nazionale del suo Paese, l’Argentina), ma non dice di no se a chiamarlo sono i giovani di una parrocchia di periferia.
Julio Velasco parla ai ragazzi di Sant’Andrea della Barca di Bologna e mette in gioco la sua esperienza: di allenatore, di laureato in filosofia («Me ne innamorai grazie a un insegnante»), e di nonno: «I miei nipotini piccoli non lo sanno, ma io li studio – dice sorridendo –. Cerco di capire come si muovono, quali sono le loro vittorie, le conquiste di ogni giorno».
È proprio lui, il mister, a fare saltare gli schemi: ne viene fuori una lezione di vita sul coraggio di superare i limiti e sull’intelligenza di accettarli, su cosa davvero voglia dire giocare per la squadra. E sulla responsabilità. L’esempio - in negativo - è quello dello schiacciatore che colpisce male, e fa un cenno come a dire: dovevano darmi la palla più alta. «Il palleggiatore – continua Velasco – a sua volta si gira verso il ricevitore: certo avrei alzato meglio, fa intendere, se solo mi avessero servito meglio». A questo punto il ricevitore è in difficoltà, perché non può certo scaricare la colpa sugli avversari, chiedendo loro la gentilezza di battere piano: «Se va bene, però, noterà che un piccolo raggio di luce arriva sul campo. E se la prenderà con chi prima del match non ha sistemato bene il tendone davanti alla finestra. Morale della favola: noi abbiamo perso, e la colpa è del bidello».
I ragazzi della parrocchia ridono, ma intanto chiedono e si chiedono: perché siamo così abituati a non rico- noscere gli sbagli, finendo per nasconderli dietro improbabili giustificazioni? Forse perché si crede - e a torto - che la nostra vita sia tutta lì. «Ci sono genitori che, per timore di deluderlo, si sono abituati a far vincere il figlio in casa, in qualsiasi situazione – riprende coach Velasco –. Poi, quello esce e scopre di poter perdere. Si domanda: perché, cos’è accaduto? Gli risponderei: semplice, i tuoi genitori ti hanno mentito».
Perdere, insomma, non è un problema così grande, «specie se allarghiamo l’orizzonte a quello che succede nel mondo, a quali sono le vere sconfitte», e l’errore va considerato per quello che è, ossia «parte del processo di apprendimento », dice il mister del Dream Team azzurro anni ’90 guardando soprattutto alle ragazze, che in genere «si preparano meglio ma temono di più il giudizio». Vincere non è arrivare primi - altrimenti saremmo condannati alla disperazione ma «superare i nostri limiti. A me – e parte un altro aneddoto – è capitato di indossare un paio di sci, con la pista quasi piatta, e arrivare in fondo. Qualcuno più esperto poteva prendermi per un mezzo matto, perché ero contento per così poco, ma davvero ho avuto una sensazione di vittoria straordinaria».
Una vittoria che a volte si ha nel dire no quando sei accettato solo se ti mostri diverso da come sei: «Io ho paura delle montagne russe, e non ci vado perché sono fatto così. Nei gruppi che dirigo non permetto che un giocatore giudichi un altro per il suo modo di essere». Tanto più, va avanti Velasco, che in squadra l’omologazione non rende: «Con undici Baggio non si vince. C’è qualcuno che deve marcare meglio, qualcuno che deve correre di più. Platini, un altro fenomeno, era il primo a sapere di avere bisogno, accanto a lui, di uno come Bonini, diverso da lui. Molte volte si pensa che per fare gruppo si debba diluire l’individualità. È il contrario: si rimane diversi, ma si “funziona” insieme». Poi i ricordi personali legati alle radici argentine, che il coach giramondo non ha mai perso di vista. Gli anni difficili della dittatura prima, e della crisi economica poi («Dissi scherzando a mia madre: hai presente quando non volevi che mi occupassi di volley? Puoi mettere due candeline vicino a una palla e ringraziarla, perché se ci salviamo è grazie agli anni di allenatore...»). E quel Papa che si mostrò al mondo con un “Buonasera”: «È stato un momento bellissimo – sorride Velasco –. Come se fosse in piazza, in mezzo alla gente».

E stare in mezzo alla gente, per il misterfilosofo, è più importante di medaglie e titoli. Sarà per questo che, da dirigente della Lazio - nella sua breve parentesi calcistica - pretese che la piccola riproduzione della Coppa Uefa appena vinta venisse data pure a due magazzinieri. Il senso della squadra si misura anche da qui.