Il tecnico di volley ai ragazzi di un
oratorio: lezione di vita sul coraggio di superare i propri limiti e
l’intelligenza di accettarli. E su cosa voglia dire giocare per la squadra.
Ha vinto ovunque sia andato, eppure è il
primo a mettere in guardia da chi fa del successo la propria ragione di vita.
Da oltre vent’anni Julio Velasco è il punto di riferimento indiscusso di un
intero movimento sportivo, quello del volley, ma non ha problemi ad ammettere
che «sì, spesso anche io ho sbagliato le mie scelte, cosa pensavate?». È stato
protagonista nei palazzetti di mezzo pianeta (dopo aver conquistato due
campionati asiatici allenando l’Iran, si è messo alla guida della nazionale del
suo Paese, l’Argentina), ma non dice di no se a chiamarlo sono i giovani di una
parrocchia di periferia.
Julio Velasco parla ai ragazzi di
Sant’Andrea della Barca di Bologna e mette in gioco la sua esperienza: di
allenatore, di laureato in filosofia («Me ne innamorai grazie a un
insegnante»), e di nonno: «I miei nipotini piccoli non lo sanno, ma io li
studio – dice sorridendo –. Cerco di capire come si muovono, quali sono le loro
vittorie, le conquiste di ogni giorno».
È proprio lui, il mister, a fare saltare
gli schemi: ne viene fuori una lezione di vita sul coraggio di superare i
limiti e sull’intelligenza di accettarli, su cosa davvero voglia dire giocare
per la squadra. E sulla responsabilità. L’esempio - in negativo - è quello
dello schiacciatore che colpisce male, e fa un cenno come a dire: dovevano
darmi la palla più alta. «Il palleggiatore – continua Velasco – a sua volta si
gira verso il ricevitore: certo avrei alzato meglio, fa intendere, se solo mi
avessero servito meglio». A questo punto il ricevitore è in difficoltà, perché
non può certo scaricare la colpa sugli avversari, chiedendo loro la gentilezza
di battere piano: «Se va bene, però, noterà che un piccolo raggio di luce
arriva sul campo. E se la prenderà con chi prima del match non ha sistemato
bene il tendone davanti alla finestra. Morale della favola: noi abbiamo perso,
e la colpa è del bidello».
I ragazzi della parrocchia ridono, ma
intanto chiedono e si chiedono: perché siamo così abituati a non rico- noscere gli sbagli,
finendo per nasconderli dietro improbabili giustificazioni? Forse perché si
crede - e a torto - che la nostra vita sia tutta lì. «Ci sono genitori che, per
timore di deluderlo, si sono abituati a far vincere il figlio in casa, in
qualsiasi situazione – riprende coach Velasco –. Poi, quello esce e scopre di
poter perdere. Si domanda: perché, cos’è accaduto? Gli risponderei: semplice, i
tuoi genitori ti hanno mentito».
Perdere, insomma, non è un problema così
grande, «specie se allarghiamo l’orizzonte a quello che succede nel mondo, a
quali sono le vere sconfitte», e l’errore va considerato per quello che è,
ossia «parte del processo di apprendimento », dice il mister del Dream Team
azzurro anni ’90 guardando soprattutto alle ragazze, che in genere «si
preparano meglio ma temono di più il giudizio». Vincere non è arrivare
primi - altrimenti saremmo condannati alla disperazione ma «superare i nostri
limiti. A me – e parte un altro aneddoto – è capitato di indossare un paio di
sci, con la pista quasi piatta, e arrivare in fondo. Qualcuno più esperto
poteva prendermi per un mezzo matto, perché ero contento per così poco, ma
davvero ho avuto una sensazione di vittoria straordinaria».
Una vittoria che a volte si ha nel dire no
quando sei accettato solo se ti mostri diverso da come sei: «Io ho paura delle
montagne russe, e non ci vado perché sono fatto così. Nei gruppi che dirigo non
permetto che un giocatore giudichi un altro per il suo modo di essere». Tanto
più, va avanti Velasco, che in squadra l’omologazione non rende: «Con undici
Baggio non si vince. C’è qualcuno che deve marcare meglio, qualcuno che deve
correre di più. Platini, un altro fenomeno, era il primo a sapere di avere
bisogno, accanto a lui, di uno come Bonini, diverso da lui. Molte volte si
pensa che per fare gruppo si debba diluire l’individualità.
È il contrario: si rimane diversi, ma si “funziona” insieme». Poi i ricordi
personali legati alle radici argentine, che il coach giramondo non ha mai perso
di vista. Gli anni difficili della dittatura prima, e della crisi economica poi
(«Dissi scherzando a mia madre: hai presente quando non volevi che mi occupassi
di volley? Puoi mettere due candeline vicino a una palla e ringraziarla, perché
se ci salviamo è grazie agli anni di allenatore...»). E quel Papa che si mostrò
al mondo con un “Buonasera”: «È stato un momento bellissimo – sorride Velasco
–. Come se fosse in piazza, in mezzo alla gente».
E stare in mezzo alla gente, per il
misterfilosofo, è più importante di medaglie e titoli. Sarà per questo che, da
dirigente della Lazio - nella sua breve parentesi calcistica - pretese che la
piccola riproduzione della Coppa Uefa appena vinta venisse data pure a due
magazzinieri. Il senso della squadra si misura anche da qui.